FENOMENOLOGIA DEL RITRATTO
Tiziana Rasà
Il turbinio emozionale che i volti di Andrea Cantieri evocano, schiudono un universo psicologico intrigante e inquietante, melanconico: il ritratto, particolarmente caro a Hegel[1], sintetizza in una gestualità dinamica e dirompente l’affannata ricerca di sé, di quella fisicità che il tempo indelebilmente corrode, e dunque interviene prepotente sullo scorrere inesorabile, cristallizzandolo in uno sguardo, uno schizzo nervoso a definire le linee della forma, della materia. Materia percepibile in tutto il suo spessore fisico, oltre che concettuale: l’opera d’arte diviene allora mezzo catartico, libera l’angoscia in cui la coscienza versa, nel riconoscersi uomo ingabbiato nella drammatica condizione d’esistere: una lotta fra il proprio vivere e l’ineluttabilità del finire, in cui la morte è sublimata, esorcizzata, sconfitta. E i volti si rivelano il volto: diverse le sue manifestazioni, i personaggi scelti, ma quasi sempre figure maschili avvolte da una delirante ebbrezza musicale, elementi che identificano, e quindi riportano incondizionatamente alla figura del Cantieri. Il carattere introspettivo delle opere trattate, dunque, seppur ben si aprirebbe ad una lettura più ampia che universalizzi la tensione umana fra essere e non essere, tuttavia rivela una soggettività individualistica che non lascia spazio a tale lettura, quantomeno nell’intenzione, se non nella dissertazione ermeneutica: l’artista infatti esprime in ogni gesto pittorico, l’esigenza d’imprimere la propria storia, il proprio sguardo, il proprio sogno di vivere. In tal senso, l’opera del Cantieri risponde appieno alla teoria heideggeriana[2] espressa ne “L’origine dell’opera d’arte”, secondo la quale lo stupore della filosofia non va spento (come pretende di fare la scienza), e la verità[3] non è una determinazione universale, ma il particolare evento per cui essa si fa opera e si apre come mondo. La verità viene dunque tenuta distante dall’universale e, proprio perché messa in opera della verità, l’opera d’arte può dirsi bella. Nel nostro caso, la verità è il volto, la sua fisicità impressa oltre ogni condizione spaziale e temporale. Se per Hegel il ritratto rappresenta il punto medio tra ciò che è esterno e ciò che è interno nell’essere umano, allora può dirsi che nei ritratti di Andrea Cantieri i due elementi coincidono: come in un perfetto schema hegeliano tesi e antitesi, vita e morte, coincidono nella sintesi, quale diviene l’opera d’arte. Un’opera che forse, lo stesso Hegel avrebbe posto in uno spazio immaginario mediano fra l’ “arte classica” e l’ “arte romantica”, come intese nella ripartizione della trattazione estetica: se l’una infatti impiega fondamentalmente la figura umana in una capacità espressiva che non trova già date le figure ma le crea, perfettamente adeguate a ciò che devono esprimere; nell’altra, invece, il soggetto si fa principio dominante di senso sulla natura e sul mondo degli oggetti, rivelando dunque quell’assoluta interiorità per la quale il soggetto gode della sua inesauribile libertà e creatività, mai sufficientemente esprimibile in figure determinate e particolari. Infine, seppur la dissertazione filosofica contempli entrambi gli accostamenti, heideggeriano ed hegeliano nei diversi aspetti, tuttavia il Cantieri può senz’altro collocarsi nel primo, distaccandosi nettamente dalla dimensione dello Spirito assoluto hegeliano: l’antinomia umana fra vita e morte non trova via d’uscita, se non nell’opera d’arte, la quale però è e rimane un elemento-strumento della realtà a disposizione di pochi eletti, gli artisti, in cui è esclusa ogni contemplazione metafisica.
[1] Cfr Hegel G. W. F., Lezioni di Estetica. (Si noti che Hegel non abbia mai scritto un’Estetica, ma che il volume con questo titolo apparve nelle sue opere complete come raccolta e assemblaggio degli appunti trascritti da auditori di vari cicli di lezioni da lui dedicate all'argomento).
[2] Si tenga presente il distacco dell’Estetica heideggeriana da quella hegeliana.
[3] L’opera d’arte ha il grande merito di lasciare che la cosa sia nella verità, in uno stato d’animo che sfugge ai problemi scientifici, ovvero con il concreto stupore di fronte all’essere che si manifesta nel mondo. Il quadro è dunque inverato da chi lo guarda perché c’è la verità, l’essere, il quale traspare nell’opera d’arte ed è "dettato". (Nella teoria heideggeriana è escluso ogni riferimento hegeliano alla verità dell’arte, nel senso storico e fenomenologico).